Mostra personale presso INTERNO 14 – Via Carlo Alberto 63, Roma
a cura di Lorenzo Canova
dal 7 al 26 giugno 2016
Comunicato stampa (scarica)
Il giorno 7 giugno 2016 alle ore 18.30 Interno 14_lo spazio dell’AIAC – Associazione Italiana di Architettura e Critica presenta “Camere Oscure”, un progetto di Germano Serafini a cura di Lorenzo Canova, in cui l’artista attraverserà una parte del suo lavoro sulla fotografia in bianco e nero con un’installazione ideata appositamente per lo spazio espositivo.
Sponsor tecnico: LABitalia – ILFORD PHOTO
L’intera serie è realizzata su carta Ilford baritata, nei formati 30×30 (su carta 30×40) e 40×40 (su carta 40×50), tiratura 5 + 2 p.d’A., indipendentemente dal formato.
I paesaggi delle camere oscure
di Lorenzo Canova (scarica)
Filari di viti al tramonto, sentieri di campagna illuminati dalla luna, tronchi mozzati e modellati dal vento, rocce scavate da piogge millenarie: le immagini di Germano Serafini sorgono leggere come frammenti di memoria salvati dall’oblio, segni iconici scavati nel nero, fatti risorgere dall’obiettivo e dallo sguardo dell’artista in un appartamento interamente dedicato alla sua opera.
Il titolo di questa mostra, CAMERE OSCURE, si riferisce infatti, in modo duplice, alle affascinanti sale di Interno 14, teatro della mostra, e alla vera e propria camera oscura che Serafini ha costruito in una di esse per dare vita tangibile alle sue fotografie in bianco e nero, che scatta ancora in pellicola con il procedimento affascinante e complesso di stampa ai sali d’argento su carta baritata, tecnica che l’artista ha potuto affinare anche grazie al magistero di suo padre Adolfo, che è stato cromista alla zecca.
Su questo supporto prezioso, Serafini compone allora un itinerario allo stesso tempo personale e collettivo, fatto di paesaggi e oggetti che si rinnovano grazie all’azione di un autore che penetra il mistero e la scorza opaca del mondo per scoprire la sostanza segreta delle cose, il nesso profondo che lega la luce al buio e che dà forma alla realtà di cui condividiamo l’esperienza.
I sali d’argento, come in un procedimento alchemico, incidono quindi il velo delle tenebre e compongono paesaggi mentali che ammiriamo in queste camere oscure come vedute di luoghi in bilico tra verità e finzione, terre antiche dove la natura conserva la lenta scansione dei tempi che nascondono la sua essenza enigmatica.
Dunque le camere di Serafini rappresentano forse la metafora di una discesa nell’inconscio alla ricerca degli archetipi iconici del suo personale dialogo tra memoria e percezione, dove lo sguardo e l’azione dell’artista si fanno strada nell’oscurità per fornirci le coordinate di questa possibile ricostruzione del mondo, del suo rinnovamento mediante la fotografia, filo d’Arianna attraverso il labirinto della complessità in cui le cose sono trasformate e ricomposte dalla rigorosa e metamorfica azione dell’artista.
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Testo Lori Adragna
Rocce solcate dalle intemperie, strade bianche di campagna, filari di viti, tronchi modellati dal vento. Sono le immagini evocate da Germano Serafini, segni iconici scavati nel nero, fatti risorgere dall’obiettivo e dallo sguardo dell’artista in un appartamento romano interamente dedicato alla sua opera.
Ben si presta Interno 14 – un’infilata di stanze che richiamano più l’atmosfera della home gallery che un asettico contenitore espositivo – ad accogliere la mostra di Germano Serafini (Roma, 1975). Che allestisce una vera e propria camera oscura per stampare, in un poetico e rigoroso bianco e nero, le sue fotografie scattate ancora su pellicola.
Ecco allora che il “racconto” di se stesso si realizza attraverso un luogo in cui l’artista si identifica: lo spazio fisico che ne delimita il suo perimetro, inteso come laboratorio dal quale nascono e si sviluppano le sue immagini e, al tempo stesso, come spazio simbolico, nel quale si elaborano sistemi di pensiero. Le camere di Serafini – scrive Lorenzo Canova, curatore della mostra – “rappresentano forse la metafora di una discesa nell’inconscio alla ricerca degli archetipi iconici del suo personale dialogo tra memoria e percezione”. Un’esperienza intima, quella di Serafini, in cui ognuno dei partecipanti può riconoscersi, e che convoglia a una riflessione più generale sui meccanismi dell’agire creativo.
rif. Artribune 19 giugno 2016
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Testo Maila Buglioni (scarica)
«Dunque secondo Balzac, ogni corpo, in natura, è composto da una serie di spettri, in strati sovrapposti all’infinito, stratificati in membrane infinitesimali, in tutti i sensi in cui si attua la percezione ottica.
Non essendo consentito all’uomo di creare, – cioè dar concretezza a una cosa solida a partire da un’apparizione e dall’impalpabile, ossia dal ‘ nulla’ fare una ‘cosa’ – ogni operazione daguerriana interveniva a rivelare, distaccava e tratteneva, annettendoselo, uno degli strati del corpo fotografico.
Ne derivava per detto corpo, e a ogni operazione ripetuta, l’evidente perdita d’uno dei suoi spettri, ossia di una parte fondamentale della sua assenza costitutiva.» (Nadar, Quand j’étais photographe, edizione d’Aujourd’hui, Plan de la Tour 1979, trad. it. Quando ero fotografo, Editori Riuniti, Roma, 1982.)
La porta si chiuse dietro di me. E solo allora mi resi conto che il viaggio iniziato era solo all’inizio. Uscivo piena da quelle stanze, colma di tante di emozioni e sensazioni, di tanti stimoli e input generati dalla sola visione di silenziosi provini in bianco e nero.
Piccoli scatti, sviluppati nel medesimo spazio espositivo, carichi di stratificazioni, di memorie del passato e di tradizioni trasmesse e tramandate.
Partendo da fotografie dal sapore scientifico come i dettagli rocciosi in cui è inscritta la storia della vallata del Furlo, particolari prettamente formali ma non troppo astratti, inizia un viaggio che accompagna lo spettatore in tutta la durata del percorso della mostra. Lo sguardo dell’utente è, infatti, catturato in un iter che muovendo dalle profondità terrestri marchigiane riemergerà in superficie grazie all’osservazione di paradisi astrali e terreni siciliani, ove vecchi campi di viti s’intrecciano ad usanze ancestrali.
Attraverso l’utilizzo di una camera oscura homemade Germano dà vita all’alchimia della ricerca fotografica ponendo la sua macchina fotografica analogica di fronte a paesaggi illuminati dall’accecante luce dell’astro lunare. La luna piena è colei che pitturerà sulla pellicola ogni singolo dettaglio del luogo. Tuttavia, il risultato del lento processo di esposizione, variabile a seconda delle singole scelte del fotografo, emergerà solo in seconda battuta ovvero in studio. Lì l’artista- alchimista sarà il solo regista dello spettacolo cui vorrà dar vita decidendone luci e ombre, ciò che rendere visibile e ciò che lasciare invisibile. Così, provino dopo provino, Germano rende manifesta la sua elaborazione soggettiva della realtà impressa, aprendo a sensazioni rare e indescrivibili, paragonabili a quelle suscitate dagli “Equivalenti” di Alfred Stieglitz.
Una mostra da cui emerge l’essenza stessa della Fotografia ovvero il suo essere «traccia significante il cui legame con la cosa che rappresenta è quello di essere stata fisicamente prodotta dal suo referente»1. Fotografia che traccia l’impronta della realtà stabilendo un solido legame con il passato. I paesaggi in mostra, infatti, fanno riemergere nella mia mente il ricordo degli scatti realizzati dall’americano Ansel Adams, maestro delle vedute in bianco e nero, come anche le inquietanti stazioni di benzina di Ed Ruscha e le disabitate visioni cittadine di Edward Hopper. Germano si riconnette così, attraverso un filo invisibile, alla fotografia delle origini non solo a livello iconico ma anche grazie all’impiego di mezzi tecnologicamente non innovativi – dalla camera oscura alla pellicola, dal bianco e nero all’utilizzo di una ILFORD – invitando l’utente a riflettere su ciò che oggi è definita “Fotografia”, sul suo uso improprio nei social e nella pubblicità. Un’esortazione a riappropriarsi di ciò che è veramente Fotografia.
1. Rosanlind Krauss, Teoria e Storia della Fotografia, Bruno Mondadori editore, Milano, 1996, pag.12.